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La nostalgia del concreto
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È in una lettera non datata, forse del ’33, e destinata a Gerhard Krüger, che Jacob Klein (grande dimenticato della storia del pensiero) discorre di «nostalgia del concreto». Inusitata nostalgia. Nostalgia che allude e come in cifra o epitome compendia la dirimente questione del simbolico, della tecnica, dell’algebra. O sia quel «mirabile inganno», scriveva Fortini, «che sosteniamo tuttavia». Ma se l’oggetto che si fronteggia è inafferrabile miraggio, occorrerà per tanto valersi di una scrittura fratturata, che non celi le proprie fratture. Di una coerenza discorsiva che passi traverso deviazioni e scarti d’un asistematico procedere. O ancora: di una cornice latente, intrinseca, sottintesa (come nei film di Fellini); di un ramificato incedere genealogico, costellato di volti che dal buio sortiscano, teste mozzate, addietro nel tempo rimontanti. Disagevole, altronde, nel pozzo imperscrutabile del passato, riesce scernere ove l’invenzione trascolori nella realtà e questa in quella si distilli. Sì che proprio da cotesta cera persa ovvero vuoto intervallo – tra invenzione e realtà, presente e passato, nostalgia del concreto e amplesso dell’assente – certa irrealtà in questo libro sembrerà soffondersi, come se mai nulla di quel che vi è ragionato fosse accaduto, come se tutto, in fondo, e proprio per che al reale aderentissimo, fosse romanzo. Di più: fosse farragine di novelle, da misterioso filo assieme rattenute. Filo in primo luogo della scrittura, del pensiero, che non si spezza. Filo da mille e una notte. Filo per sfuggire, come Sherazade, ai sultani di questo mondo. A quella che Hegel chiamava la «signora assoluta» – la morte.